di Mattia Pertoldi de "Il Messaggero Veneto"
UDINE. Giandomenico Bagatin è il referente degli Psicologi Sportivi dell’Ordine degli Psicologi del FVG. Ma è anche il padre di un bambino di 9 anni che gioca a calcio sui terreni della regione.
Campi di provincia dove, anche lì, sulle tribune sempre più spesso genitori fuori controllo si travestono da invasati sostenitori dei propri figli superando – abbondantemente – il confine e il limite del consentito.
E per questo, anche di fronte a questo nuovo caso di razzismo “in fasce”, lo psicologo conferma quell’idea che, in cuor suo, sostiene da tempo: per debellare il fenomeno bisogna lavorare, il prima possibile, sui più piccoli.
Dottor Bagatin, l’ha sorpresa quanto successo a Villanova?
«Purtroppo no, perchè ormai, anche nelle gare dei settori giovanili, si sente di tutto. Ma il problema principale è che, quasi sempre, il peggio non avviene in campo, bensì sugli spalti».
Gli adulti, in altre parole, rappresentano troppo spesso i peggiori esempi per i più piccoli?
«Certamente. Un bambino non conosce il razzismo, non sa cosa sia. Gli viene trasmesso da quanto sente dai genitori o, più in generale, dai “grandi” che ha attorno».
Che rapporto c’è, se esiste, tra gli stadi e i comportamenti non adatti?
«Il collegamento esiste, è indubbio. Lo stadio, così come il campo sportivo, è visto tante volte come il posto dove, culturalmente, il singolo ha la possibilità di sfogarsi impunemente. Diventa il luogo dove si possono pronunciare gli insulti più beceri che la maggior parte delle persone non si permetterebbe mai, invece, nemmeno di sussurrare nella vita di ogni giorno».
D’accordo, ma perchè arrivare sino al razzismo?
«Prendete una buona fetta dei cori cantati durante le partite e lo capirete. Allo stadio si va, metaforicamente, per picchiare duro. Per colpire l’avversario nei suoi punti deboli: per fargli più male possibile. E il colore della pelle diventa, spesso, l’obiettivo privilegiato dell’insulto».
Secondo lei come si può uscire, definitivamente, da questa situazione?
«Il cambio radicale della nostra società può avvenire soltanto lavorando sui bambini, dalle fasce d’età più pure e non ancora contaminate da certe visioni del mondo. Combattere il malcostume tra gli adulti, invece, è più difficile. Quanto una persona continua a vedere la diversità come un pericolo, invece che una possibilità di arricchimento comune, vuol dire che possiede un impianto culturale radicato nel tempo che lo porta a concepire la separazione da chi non è come lui come l’unica maniera possibile per vivere o, meglio, per sopravvivere».
Scusi, ma vuol dire che, con gli adulti, non c’è speranza?
«No, ma che la pressione deve essere molto più approfondita. Bisogna, cioè, lavorare per debellare l’ignoranza, intesa nella sua accezione di mancanza di conoscenza. Nei progetti di integrazione e che combattono il razzismo, anche in quelli lanciati recentemente dalla Federcalcio, si parte proprio dalla base spiegando che il concetto di razza, nell’homo sapiens, non ha alcun senso di esistere o fondamento scientifico. Questo è un primo aspetto cognitivo, ma il lavoro va fatto anche a quel livello che io definisco di cuore».
Ci può fare un esempio?
«Mettersi nei panni dell’altro individuo e provare anche lontanamente a capire quanto certi comportamenti, o determinate offese, facciano male a chi abbiamo di fronte». |